ANTROPOLOGIA

 

MITI E MAGIA DAL PUNTO DI VISTA ANTROPOLOGICO




Il tentativo di far risorgere il passato ricostruendolo attraverso una narrazione basata sui miti della tradizioni di diversi popoli o create ex novo dall’immaginazione di un autore, rappresenta il modo con cui l’uomo cerca rifugio dal reale o evita di affrontare il reale che gli si pone davanti, in maniera talvolta dolorosa, nel suo presente. In tutte le storie mitiche, infatti, se lette dal punto di vista antropologico, l’uomo attua con la narrazione una proiezione fantastica sia verso il proprio passato che verso un possibile futuro, e questa proiezione diventa per lui qualcosa di sublime e di sacro che perde il rapporto con la realtà materiale del presente.

Secondo Alano di Lilla (1125-1203), teologo, filosofo e letterato medievale, l’uomo è un “enigma in movimento” in quanto di lui possiamo solo conoscere il comportamento e seguirne le tracce che lascia o che ha lasciato attraverso il suo lavoro, ossia attraverso la sua capacità di manipolare le materia, di costruire e di trasformare, ad esempio, la pietra per incidervi statue grandiose di Dei o terribili ritratti di mostri, del cui significato l’uomo contemporaneo non sa quasi più nulla.

Per Claude Lévi-Stauss, tra i più importanti antropologi del XX secolo, il racconto mitico e il mito stesso sono costruzioni speculative, ovvero costruzioni del pensiero umano che liberamente crea narrazioni, che immagina mondi nuovi staccandosi dalla realtà quotidiana. Il mito, da questo punto di vista, non è altro che una realtà interna al pensiero umano; i racconti fantasy o di fantascienza ne sono un esempio.

Inoltre, sempre secondo Lévi-Strauss, il mito ha anche la funzione di conciliare gli aspetti contraddittori dell’esistenza umana che il pensiero razionale non riesce a risolvere, creando mediatori simbolici che spiegano, appunto, l’esistenza di bene e male, di vita e morte. Ad esempio: le figure metà uomo-metà animale che troviamo espresse nell’arte (scultura, pittura) o nel racconto antico come quella del Minotauro. Ma, di fatto, tutti gli animali antropomorfi hanno tale funzione simbolica. Per calarci nel fantasy, nel “medioevo fantastico” creato ad esempio dalla penna di Tolkien, un mediatore simbolico è rappresentato dall’orco.

Dalla prospettiva antropologica il pensiero mitico viene studiato, quindi, per capire quale sia stato o sia il modo di comunicare e di conoscere degli antichi o dei gruppi umani che presentano ancora, in qualche parte del mondo moderno, tratti o esistenze primitive. Oggi il numero delle popolazioni che vivono a uno stadio di sviluppo culturale primitivo sono pochissime, eppure conoscerle ci aiuta a capire qualche cosa di noi, di quello che siamo stati in un’epoca antica o – addirittura – preistorica; un’epoca popolata da strane figure immaginate dalle menti ingenue dei selvaggi, ad esempio, e che l’uomo contemporaneo ritrova nella lettura della narrativa fantasy, la quale, non è un caso, ha un enorme successo di pubblico adulto, oltre che adolescente.

Il mito per gli antropologi non è, tuttavia, la ricostruzione in termini primitivi di eventi realmente accaduti, ma è qualcosa che esiste autonomamente. Specie in quelle culture che comunicano in forma scritta come la nostra, il mito è un prodotto a sé stante che proietta parti della realtà in un mondo “altro”, fatto da luoghi impossibili da frequentare per la quasi totalità degli esseri viventi. Cielo, luna, stelle, pianeti, sole, mare, nuvole, e così via, diventano luoghi popolati da strane creature, creature fantastiche che comunicano fra loro pur parlando lingue diverse. Si attua così un annullamento delle differenze tra generi e specie, tra mondo sensibile e mondo invisibile, che permette una antropomorfizzazione della Natura, per cui caratteristiche peculiarmente umane – come linguaggio, sentimenti, emozioni – passano dall’uomo agli animali, o alle piante o persino alle cose; ma anche viceversa: l’uomo acquista la capacità di respirare sott’acqua o di volare.

Le risposte degli antropologi su che cosa sia il mito e su quale sia la sua funzione non sono univoche: con il mito si spiega l’origine del mondo; oppure si insegna ai bambini il senso del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto (funzione pedagogica); ma anche si dà senso alla nostra esistenza, si spiegano le differenze di genere, di condizione sociale e di potere; infine, si mette ordine al mondo naturale e umano.

Se con il mito si possono legittimare le situazioni del reale o evadere dalla realtà, si può sopportare meglio il presente o cercare di trasformarlo in qualcosa che porti a un rinnovamento della realtà stessa, una funzione di trasformazione della realtà è data altresì dalla credenza nel magico.

Che cos’è la magia da un punto di vista antropologico?

Per lungo tempo, e almeno fino al XVIII secolo, la magia è stata un modo di conoscere e di comunicare determinate conoscenze sul mondo. Anche Isaac Newton, uno dei più grandi scienziati di tutti i tempi, si è dedicato alla ricerca della “pietra filosofale” e pensò (come gli alchimisti medievali) di poter manipolare la materia per ottenerne metalli preziosi.

Chimici, naturalisti, medici, per molti secoli furono convinti non soltanto del fatto che gli astri potessero avere un qualche influsso sulla vita degli uomini, ma anche che ci fosse la possibilità di impadronirsi del segreto della vita per trasformarla e, con essa, per cambiare la natura e il corso delle cose.

Ancora oggi, nelle diverse culture, gli antropologi studiano l’uso di gesti e formule verbali che si credevano o si credono magiche. Infatti, per l’uomo, non soltanto lo sciamano o l’indovino, ma anche il medico può fare “magie” compiendo azioni (“atti magici”) allo scopo di influenzare (in modo positivo o negativo) persone od eventi.

Gli antropologi hanno quindi scoperto quelli che possiamo definire i pilastri del pensiero magico: l’imitazione e il contagio. È per imitazione e contagio che procede il pensiero magico.

Un esempio di imitazione: quando alcune popolazioni dei Nativi americani, spargendo acqua sul terreno e muovendosi ritmicamente in una danza, riproducevano (per imitazione appunto) la caduta della pioggia sul terreno e il temporale, cercando di favorirne l’avvento.

Un esempio di contagio: agire su una ciocca di capelli per provocare piacere o dolore in chi l’ha posseduta, pensando che due cose che sono state in contatto fra loro conservino reciprocamente il potere di agire (per contagio appunto) l’una sull’altra anche quando vengono allontanate.

L’effetto delle parole rituali, della “formula magica”, non è ovviamente curativo, ma serve alle persone in quanto offre loro un sostegno. Fare il gesto delle corna, toccare il cornetto rosso, toccare ferro, ecc., sono gesti che facciamo tutti, indipendentemente dal fatto che crediamo o meno che abbiano un potere apotropaico. Si tratta di gestualità bene auguranti, protettive, che nascono dal bisogno di sicurezza, un bisogno ancestrale nell’uomo che fa sì che, anche oggi, l’uomo contemporaneo creda ai maghi e faccia ricorso ai cartomanti e agli indovini per prendere una decisione, decretandone il successo economico e la popolarità come è stato, per molti decenni, per qualche “mago” televisivo.

Perché ancora adesso abbiamo bisogno della magia?

Il senso di incertezza che si insinua nella vita quotidiana delle persone, sempre più frenetica e complessa, che ci vuole sempre connessi, giovani, belli e in piena salute, ma che al tempo stesso ci isola dagli altri e ci impedisce di avere con gli altri rapporti autentici, è il motore che ci spinge spesso verso la magia, che ci fa essere indulgenti verso il “soprannaturale”. Tutto ciò forma un intricato complesso di credenze che, se da un lato sottolinea la precarietà dell’equilibrio sul quale si reggono le nostre esistenze, dall’altro tende a ristabilire, con risposte rassicuranti, sebbene non vere, quello stesso equilibrio. Ed è anche questo fenomeno umano che lo studioso di antropologia vuole conoscere.

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